Arrivammo a Macerata il 31 gennaio 1942 ed io fui assegnato al 50° Reggimento Fanteria. Dopo cinque mesi di addestramento fu decisiva la nostra sorte. Il mio Reggimento fu destinato in Albania e potevamo considerarci fortunati, perché, altri,invece, furono mandati al fronte russo. Ci imbarcammo a Bari il 24 giugno 1942. Il piroscafo che ci trasportava si chiamava "Quirinale", era stracarico di soldati e navigava in un mare seminato di mine. All'alba del 25 giugno giungemmo in Albania. Sbarcammo a Durazzo e presto ci accorgemmo che era un cantiere pullulante di militari. Fummo assegnati al 131°Reparto Distrettuale di Tirana e sistemati in una radura non lontano dalla città. Ricordo che era quasi sera e, improvvisamente e imprevedibilmente, il cielo si coprì di nubi nere lasciando intravedere all'orizzonte solo un livido squarcio di luce che metteva nelle ossa freddo e tristezza. Piovve tutta la notte e sotto i nostri pagliericci l'acqua scorreva viscida e fangosa. Di fronte a noi si stagliava il monte "Tomori", dove era stata arrestata l'avanzata dei Greci nel 1941; sulle sue pendici i nostri soldati avevano scritto con sassi bianchi la parola DUX. Poco più giù di quella scritta splendeva nella notte una falce e martello incisa col fuoco: ciò rivelava la presenza di "bande armate" albanesi, come le chiamavano in gergo militare i nostri comandi, non erano altro che partigiani. Subito ci fu comunicato che uno dei nostri compiti era di rastrellare la montagna per scovarli. Per la prima volta, il giorno dopo del nostro arrivo, uscimmo in pattuglia al tramonto e tornammo all'alba. E così tutte le notti a turno. Ricordo una notte in particolare. Procedevamo in lenta faticosa processione seguendo una mulattiera, un passo dietro l'altro dentro la mota. Intorno, qualche raro spuntone di roccia fradicia: isola nuda nel mare di fango. Delle bande armate albanesi nessuna traccia. Giungemmo in un villaggio sperduto e lo attraversammo: pareva deserto, ma in effetti, c'erano donne, vecchi e bambini chiusi in casa; gli uomini erano fuggiti per paura di eventuali rastrellamenti. Albeggiava e ricominciò a piovere. Ad un tratto urtai in qualcosa di duro, di metallico. Mi arrestai di colpo, come un presentimento... Nel letto di mota affiorava un mucchio di stracci... non capivo ancora, allora con la punta della baionetta saggiai qua e là. In un punto sentii qualcosa di consistente, col piede spostai il fango e sbigottito constatai che era un elmetto, un elmetto italiano! Mi vergognai di averlo smosso, lo ricoprii in fretta e raggiunsi gli altri ai quali non dissi niente. Seguivo meccanicamente la fila e, intanto, agitati pensieri affollavano la mia mente: chi era? Da dove veniva? Quanti anni aveva?... Certamente pochi troppo pochi per morire! Camminavo e pensavo... e chi poteva essere se non un ragazzo di vent'anni allegro e spensierato, partito inneggiando alla Patria con l'entusiasmo nel cuore, sicuro della sua giovinezza, fiducioso nell'avvenire... e chi poteva essere? Solo e semplicemente uno di noi! Il mio reggimento sostò in Albania sino all'8 settembre 1943, poco meno di due anni, quindi ebbi modo di conoscere la gente e le usanze. Ebbi l'impressione di trovarmi di fronte a un esempio di vita arcaica, eppure eravamo in Europa a pochi chilometri dalle nostre coste. Non esisteva ferrovia, ne mezzi di comunicazione; le strade che congiungevano i villaggi e le città erano dei veri e propri tratturi. Gli abitanti, pastori e contadini, ottenebrati dall'ignoranza vivevano soggiogati dai pochi padroni che li limitavano e li sfruttavano. A loro era solo concesso di usufruire dei prodotti della terra e possedere qualche pecora e l'immancabile somarello. Tirana, orgoglio degli albanesi, aveva l'aspetto di una città turca per eccellenza coi suoi minareti e i suoi profumi orientali. Le strade per lo più battute erano affollate disordinatamente di automezzi militari, carri, greggi e qualche vecchio sgangherato camion. La gente non avendo mezzi, si spostava a piedi. Poche le biciclette (ancor più rare le motociclette). Le auto erano, invece, esclusiva dei funzionari civili italiani e gerarchi militari. Nei villaggi attorno, tutto era dimesso, quasi abbandonato. Molte le porte chiuse e, per le strade, movimento di pastori che portavano il gregge al pascolo e di contadini che spingevano asinelli dal basto sovraccarico di legna o altro. Frequenti le comitive di donne dirette ai mercati; legati alle spalle, i canestri ricolmi dei prodotti della terra. Gli Albanesi, superbi della loro storia, rinserrati nell'amore del proprio nome, dei propri ricordi e delle loro ataviche costumanze, amavano menare una vita solitaria. Celebravano le feste religiose, i riti funebri, le nozze con cerimonie tutte proprie. Cantavano i loro sentimenti d'amore con espressione, dalla quale traspirava tutto l'impeto delle loro passioni e il dolore dell'anima anelante la libertà della loro Patria.

Tratto da "Stralci degli anni miei" di: Angiolino Cotardo




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