Feci domanda di supplenza nell'anno scolastico 1946/47 e aspettavo di essere chiamato impartendo lezioni private e preparandomi al Concorso Magistrale, che si diceva imminente. Era il primo del dopoguerra. Ogni mattina mi recavo all'ufficio postale e chiedevo: -c'è posta per me?- ma la risposta era sempre negativa. Eravamo ai primi di marzo e avevo perduto le speranze, quando una mattina Pippi, il postino, bussò rumorosamente alla porta ed entrò in casa senza aspettare risposta. -E arrivata!- mi disse, sventolando una busta gialla. -Sono venuto qui prima di fare il giro-. Infatti era la tanto attesa lettera della Direzione. L'aprii febbrilmente e lessi: dovevo presentarmi immediatamente alla scuola di Melpignano per supplire in pluriclasse di primo ciclo la signora Anna, un'anziana maestra alle soglie della pensione che già avevo avuto occasione di conoscere. Felice, come non ero più da tanto tempo, inforcai la bicicletta e corsi a Melpignano. Cercai la scuola e la trovai in una vecchia casa a tetti, alla periferia del paese. Poggiai la bicicletta alla scaletta di pietra consunta, saltai a due a due i gradini e mi trovai di fronte ad una porta verde, tarlata e scrostata, tenuta aperta da una grossa pietra. La stanza era vuota, ma mi giungevano vari suoni: vociare di bambini, grida della maestra e quasi a far coro, il muggito rombante di una mucca. Capii che al lato della casa c'era una stalla, non ci feci caso (a quei tempi non era una novità), e mi diressi nella stanza accanto. Bussai e aprii la porta, la maestra mi accolse come un liberatore. -Finalmente sei arrivato!- esclamò- non ce la facevo più. Si sono scatenati perché manca la loro maestra, e poi uniti ai miei in questa piccola aula c'è da impazzire! L'aria sapeva di polvere, di gesso, di aliti infantili, di aromi di frutta stropicciata; era aria di scuola, aria caratteristica che avrei respirato per quarant'anni. La maestra, rinfrancata, invitò gli alunni della signora Anna a seguirmi e questi si catapultarono in blocco alla porta, poi mi mise in mano il registro e con un frettoloso: buon lavoro, chiuse la porta dell'aula. Mi guardai attorno: i bambini sedevano nei banchi rumorosamente, si spingevano, gridavano, si davano di gomito, senza curarsi della mia presenza. Attesi che fossero sistemati e intanto salii sulla pedana della cattedra che mi sembrò troppo grande e sproporzionata, e pensai: è il mio primo giorno di maestro! Ero contento, ma subito dopo cominciarono i guai. I bambini erano finalmente seduti, l'ordine e il silenzio erano ormai ristabiliti, ma tutti mi guardavano con curiosità e aspettavano. Infatti toccava a me parlare, ero io il maestro, ma cosa dire? Iniziai un lungo, complicato, quanto inutile discorso, dissi che sarei stato con loro per due mesi, che avremmo fatto tante cose assieme, che dovevano essere buoni anche se io non ero la loro maestra e così via. Ma sul più bello la classe si sconvolse inaspettatamente e ricominciarono il chiasso, i litigi, i dispetti. Cominciamo bene - pensai, ed ebbi un attimo di scoraggiamento: dove erano andati a finire i miei propositi, gli studi che mi avevano appassionato... il Lambruschini... il Lombardo Radice... i programmi del '45? Tutto si confondeva nella mia mente, mentre il chiasso, come una marea montante mi aggrediva sempre più. Scesi dalla cattedra, mi avvicinai al primo banco e gridai: -Sul banco i compiti di casa! Non l'avessi mai detto! La risposta fu un tramestio di cartelle, simile ad un'improvvisa grandinata, poi i bambini mi vennero addosso quasi a soffocarmi, brandendo i quaderni e parlando contemporaneamente. Sommerso com'ero da quella valanga infantile, altro non mi riuscii di fare se non di urlare: -Seduti! -e correre alla lavagna come ad un'ancora di salvezza. Scrissi "Operazioni" e rifilai velocemente due lunghe colonne di numeri e segni, non so se adeguati alla classe; ai piccoli di prima ordinai di ricopiare due lunghe pagine del libro di lettura e finalmente sedetti in cattedra, esausto, ma soddisfatto di aver finalmente ottenuto il silenzio. Ma intanto pensavo: -Ma così non si fa scuola. Cosa facevano, cosa dicevano quei maestri che parlavano pacatamente e la classe immobile ascoltava? C'era qualcosa di misterioso, di impercettibile che io non sapevo che non avevo studiato, non avevo trovato nei libri! Finita la lezione mi diressi dalla signora Anna: avevo bisogno di parlare con lei, volevo sapere. Il grande portone era spalancato, entrai e mi trovai in un cortile quadrato, circondato da piante fiorite. Un gelsomino si stendeva su un muro dove si affacciavano diverse porte. Mi diressi verso quella dove le tendine alzate lasciavano intravedere una testa china, difatti era lei, la signora Anna intenta a lavorare. Appena mi scorse, si alzò, ripose il lavoro sulla sedia, si tolse gli occhiali e aprì la porta. Era una donna d'altri tempi, tranquilla e sorridente; veniva da un paese lontano, ma si era adattata molto bene al nuovo. Aveva avuto cinque figli che aveva cresciuto con pazienza e con dolcezza; aveva accomunato a loro i bambini della scuola ai quali si era dedicata con lo stesso amore e la stessa dedizione. Era vestita di nero. I capelli bianchi le adornavano il viso pallido. Sulle spalle aveva uno scialletto di lana che stringeva ogni tanto al petto dove era appuntato un medaglione con l'effige del marito morto. Molti lutti l'avevano colpita. Sul tavolo numerose foto erano attorno ad una lampada accesa. Ero intimidito e non sapevo come cominciare. Lei mi guardò con i suoi occhi celesti, limpidi e benevoli e capì che avevo bisogno di qualcosa. Per togliermi d'impaccio prese una sedia e disse: -Vieni, siediti-. Sedette anche lei e continuò: -Cosa c'è che non và? -Ed io: -Oggi è stato il primo giorno di scuola, ma non è stato facile... Ascoltò il mio sfogo, la mie perplessità, i miei interrogativi, poi, come si fa con un bambino, poggiandomi una mano su un braccio mi disse: -Nino la via della scuola è lunga e imprevedibile. Nessuno può aiutarti e niente di quanto hai veramente bisogno puoi trovare nei libri. Sono cose che si conquistano anno dopo anno con l'esperienza, ma soprattutto con la volontà di riuscire unita al grande amore per i bambini. Se tu già dal primo giorno ti preoccupi sei sulla buona strada; va tranquillo e col tempo ti ricorderai delle mie parole; io posso darti solo qualche consiglio pratico ma il resto dovrai farlo da te. Io tacevo deluso, ma lei continuava -Per lavorare bene devi prima conoscere i bambini e capire quanto possono dare. I nostri sono bambini rozzi che vivono in campagna dove aiutano i genitori nei lavori. Abituati alla libertà più assoluta è difficile per loro stare quieti nei banchi. Poi, parlano il dialetto e l'italiano è lingua straniera per loro. A volte non la comprendono e l'apprendono con molta difficoltà. Rivolgendoti a loro, non parlare molto, lasciali parlare, adeguati a loro linguaggio e vedrai che le cose andranno meglio. Poi ti accorgerai che sono generosi e la tua fatica sarà ricompensata. Mi sorrise senza aver l'aria di congedarmi, ma si era fatto molto tardi. La ringraziai e, promettendo di ritornare di tanto in tanto a raccontarle le mie piccole conquiste, saltai sulla bicicletta per tornare a casa. Lungo la strada mi sentivo contento e, forse, avevo riacquistato anche un po' di entusiasmo, ma sapevo di avere un grosso fardello sulle spalle! Il rapporto con la signora maestra, la mia maestra, la maestra di un maestro, è stato veramente indimenticabile. E' ancora viva, ultra ottantenne e ancora vado a trovarla. Passa le sue giornate nella stanza dove mi ospitò anni fa. Le fotografie dei morti sono aumentate ce né anche una di un suo figlio, ma il suo sorriso è lo stesso: dolce e profondamente umano. La signora maestra appartiene ad una generazione di maestri che seppero educare senza edifici scolastici e senza mezzi, dotati solo di calore umano e dedizione che nessun sussidio per quanto sofisticato può sostituire.

Tratto da "Stralci degli anni miei" di: Angiolino Cotardo




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